CHIESA DI SAN GIUSEPPE 

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Don Angelo Il primo parroco della Chiesa

Un ruolo fondamentale, nell'evoluzione di questa chiesa, è da ascrivere all'instancabile e caparbio Don Angelo Galeone che ha dedicato ogni sua opera pastorale alla crescita di questa chiesa e della comunità che attorno ad essa si è sviluppata. Don Angelo è stato testimone, mattone su mattone, di ciò che può essere considerato una specie di miracolo che richiama alla memoria la pietra sulla quale San Pietro ha fondato la storia del cristianesimo. In piccolo, Mesagne ha eretto e fortificato nel tempo le "mura incrollabili" di una fede che oggi incarnano una realtà riconosciuta a livello cittadino e diocesano.

      Ricordo degli anni '60                                                                                    Ustino

INTERVISTA A DON ANGELO GALEONE

 

Parlare della Chiesa di San Giuseppe Artigiano in Mesagne significa di fatto parlare dell’impegno pastorale, sociale, culturale e formativo del Reverendo Angelo Galeone, il solo parroco di questa chiesa dalla sua nascita fino alla chiusura della giurisdizione parrocchiale.

Don Angelo ha attraversato più di cinquant’anni della vita comunitaria, determinando la sistemazione dell’immobile di via Luigi di Savoia e la nascita della nuova chiesa (quindi parrocchia) di San Pio da Pietralcina. Il suo cammino è stato soprattutto un percorso di accompagnamento, di condivisa partecipazione, di solidarietà e di vicinanza ad una comunità che è cresciuta nella fede e nella consapevolezza di appartenere ad una entità superiore al proprio io, al proprio interesse.

Ripercorriamo questo cammino lungo oltre mezzo secolo con questa intervista a don Angelo, che consente il riaffiorare dei ricordi, degli impegni costellati dalle gioie e dai sacrifici, mentre apre nuove prospettive e introduce nuove visioni per il futuro.

 

10 Ottobre 1965: quali pensieri accompagnarono il primo giorno da parroco in San Giuseppe Artigiano?

Dopo due anni trascorsi a Brindisi come professore e prefetto del seminario, nel settembre 1965 ricevetti la nomina a parroco fondatore della nuova parrocchia di San Giuseppe Artigiano. Nomina gratificante, ma all’inizio per me fu un incubo. Ero giovane e senza esperienza. Mi chiesi: perché proprio a me?

Mons. Franco, vicario generale, mi disse: Puntiamo sul tuo carattere aperto e accogliente. Mi ha incoraggiato ad occuparmi di quel territorio, e ha vinto le mie riserve di giovane prete inesperto; egli mi convinse che era Dio a volermi in quel luogo, quel Dio al quale mi diceva di affidarmi, perché è solo Lui il vero Pastore. Intanto non dormivo. Ero spaventato. Lottavo. Ero solo nel prendere una decisione che avrebbe totalmente modificato la mia vita. Visitai la chiesa: era un androne fatiscente con al centro un altare, un piccolo crocifisso e alcune sedie cadenti. Mi sentii incapace e inadeguato. Grande era la voglia di rifiutare. Parlai con il vescovo il quale, senza quasi ascoltarmi, mi disse: Sei nel posto giusto, vai! Provai una grande delusione: una parrocchia senza popolo e senza chiesa. Affidai questa mia delusione al Signore e dopo un po’ capii che il vero problema non era la chiesa e il popolo mancanti, ma ero io con le mie paure e la mia inesperienza. Non era forse vero che quando ci mancano le forze, è Dio stesso ad intervenire? Mi rifugiai nella preghiera nella quale cercavo luce e conforto. Nel dialogo con Dio ho capito che era Lui ad avermi scelto e mi invitava a seguirlo in quella missione per me impossibile e che la “plautatio Ecclesiae” era opera sua, io ero solo uno strumento, un ben misero strumento! Così il 10 ottobre 1965, alle ore 10, l’Arciprete don Daniele Cavaliere mi presentò al popolo, cioè ad una trentina di persone appena. Le domeniche successive il popolo di Dio si ridusse a una decina di persone anziane. Capii ed ero certo che il mio parrocchiano n. 1 fosse il buon Gesù, dal quale mi sentivo amato e che mi è stato sempre vicino. È stato Lui la fonte del mio coraggio, della mia intraprendenza nel volere a tutti i costi che quell’androne diventasse una chiesa vera, dove si sarebbe riunito il popolo di Dio.

Qui è stato ed è rimasto il mio posto. Questo è il popolo di Dio che Egli stesso si è scelto e che ho amato con tutte le mie forze. Dal 1965 sono sempre stato qui. Fedele e sempre vicino ai miei parrocchiani e a quanti il Signore ha messo sulla mia strada. Sentinella di Dio, pronta a cogliere ogni sua ispirazione.

 

Ricorda i primi componenti della Comunità e l’accoglienza al nuovo giovane parroco?

La Comunità iniziale era composta da Gesù, da uno sparuto gruppo di anziane e dalla mia povera persona. Nella seconda domenica da parroco volli incontrare le mie parrocchiane anziane, parlai al loro cuore e capii che erano felici di avere un luogo in cui pregare insieme. Piangevano di gioia. Le abbracciai e assaporai il sale delle loro lacrime. Chiesi loro di pregare per me e di chiedere a Dio di benedire la chiesa in cui eravamo, perché divenisse presto una vera comunità di credenti. Puntai molto sulle loro preghiere, che arrivarono certamente a Dio. Oltre al gruppo delle “vecchiette”, il Signore inviò sulla mia strada un gruppo di uomini generosi, che si misero subito all’opera e mi aiutarono a trasformare quell’androne fatiscente in una cappella più decorosa. Angelo Carluccio (detto Ninu ti Giacumu), Cosimo Pacciolla (detto Cocu Mogna), Giovanni Devicienti, Emanuele Mitrugno, Carmelo Farina: uomini degni, onesti e tanto orgogliosi di quello che avevamo operato per rendere efficiente e più degno di Dio quello stanzone anonimo e cadente. Seppi dopo che, al termine della loro giornata di lavoro in campagna, si riunivano la sera per abbellire e dare dignità alla casa di Dio. Non verranno mai meno il mio ricordo, la mia gratitudine e il mio affetto per questi uomini generosi, i “pionieri” della chiesa di San Giuseppe. L’accoglienza riservatami dal resto della comunità non fu proprio gradevole. Per me, giovane prete, era un’esperienza inattesa alla quale non sapevo come far fronte. Avvertivo intorno a me una sordida persecuzione. Mi riferirono quel che si diceva: “Vada via quel pretino, il locale serve al popolo per divertirsi! Una sala da ballo ci serve, non una chiesa!”. Il clima era ostile, l’approccio alle persone difficile, avvertivo una chiusura totale nei riguardi di Dio e della Chiesa. Le persone avevano guide politiche che inviavano sentinelle intorno alla chiesa per spiare e riferire ciò che accadeva. Non ebbi mai paura di nessuno, non dovevo avere paura, io annunziavo Gesù e la salvezza, mi sentivo protetto e soprattutto amato da Dio e da pochi altri. Continuai la mia vita d’impegno e di servizio ai miei fratelli, sostenuto dalla forza della preghiera, e cercai il dialogo con tutti, salutavo tutti anche se spesso la risposta era un mugugno sussurrato e incomprensibile. Ma infine il dialogo e lo scambio ci furono. Quante chiacchierate in cui ci si confrontava sugli avvenimenti e sui pensieri! Quante ore notturne passate a discutere, a ragionare sulle cose di Dio e degli uomini! Niente mi pesava, dovevo farmi conoscere e far conoscere le ragioni della mia presenza in quel posto, far sapere cosa e soprattutto Chi portavo, senza chiedere nulla in cambio.

 

Parliamo dell’approccio e della crescita spirituale della comunità. Quali furono i metodi di coinvolgimento, gli strumenti di aggregazione per ottenere la complicità e la corresponsabilità di tutti?

Avvertivo una religiosità occasionale nelle persone che incontravo in modo discontinuo. Ciò mi rendeva triste, perché la fede muore se non cresce per mancanza di nutrimento. Pochissime persone partecipavano alla Messa la domenica, e di giovani e bambini nemmeno l’ombra. Vidi allora in queste due categorie i veri poveri, quelli che necessitavano di aiuto e di una mano tesa. Ma il cammino si presentava arduo per la diffidenza diffusa che sentivo intorno a me. Non perdevo coraggio perché Dio mi assisteva, ma mi domandavo come avrei fatto per radunare intorno all’altare quel popolo che mi sfuggiva apertamente. Progettai il mio programma parrocchiale: “La Parrocchia ha da dire una verità: Cristo Salvatore e Liberatore. L’uomo ha bisogno di Lui”.

Cominciai dai giovani e dai bambini per raggiungere poi i genitori.

1° Obiettivo: i giovani. Avvicinai giovani agli angoli delle strade, nei bar; parlai con loro, volli conoscerli e mi feci conoscere. Nacque così, assai lentamente, la fiducia reciproca, e mi seguirono. Feci loro capire che la parrocchia non è solo il parroco, ma tutti quelli che abitano in essa, che la parrocchia appartiene a tutti, non solo a poche persone, magari più colte o più ricche. Mi sforzai di svegliare nei giovani la coscienza dell’appartenenza alla comunità, nella quale avevano un ruolo da protagonisti. Organizzammo incontri e gare di ping-pong. Nacque poi il Centro Sportivo, che coinvolse ragazzi e ragazze nello sport: calcio, pallavolo, atletica. Cominciai a visitare le famiglie, gli anziani e gli ammalati. Organizzai gli incontri per rione, data la vastità del territorio su cui insisteva la parrocchia, suddiviso in cinque rioni.

2° Obiettivo: i bambini. Un gruppo di mamme e di ragazze furono le prime catechiste. Venne aperta la scuola di catechismo per la preparazione culturale e spirituale del bambino. Ebbe inizio la preparazione alla Prima Comunione, preceduta da incontri con i genitori. Punto di riferimento essenziale e imprescindibile: la Santa Messa domenicale INSIEME. La fede cominciò a diventare un bisogno che apre al futuro. Nacque così la parrocchia come famiglia di Dio in cammino verso il Padre attraverso Gesù.

3° Obiettivo: i compiti nella comunità, responsabilità e partecipazione. Diedi vita al Comitato organizzativo di San Giuseppe, con il compito di organizzare attività per aggregare le persone e di coinvolgere i “lontani”. Ai “pionieri” si aggiunsero: Paolo Andriola, Maria Summa, Carmelina e Bruno Saracino, Luciano Grande, Giuseppe De Palo, Antonio Pacciolla, Franco Marangio, Luigina D’Errico, Franco Mingolla, Letizia De Matteis, Fernando Carriero, i fratelli Cosimo e Giuseppe Rubino, Filippo Indolfi, Annetta Murra, Damiano Di Monte, Violetta Montanaro, Salvatore Giannino, Giuseppe Marino, Cosimo Palma, Alfredo Paolella, Nando Biscosi e Arturo Destino. Avrei voluto citare tutti quelli che nel silenzio hanno collaborato profondamente con la comunità. A loro, a voi il mio ringraziamento affettuoso. Tante le iniziative sociali organizzate: la “cuccagna” dei cinque rioni, la Cavalcata dei re Magi con 300 personaggi, la “tria”, il primo presepe vivente, attività volte a rafforzare fratellanza, vicinanza, partecipazione.

4° Obiettivo: l’Azione Cattolica. Lo scopo: maturare la fede nella preghiera e nella testimonianza. Il primo presidente fu Filippo Indolfi, poi Violetta Montanaro, Cosimo Rosato, Giuseppe Indolfi.

5° Obiettivo: la carità, poiché “senza la carità non sono nulla”. Nacque la Caritas parrocchiale. Lo scopo: mediante lo studio e la riflessione comunitaria, dare un senso cristiano alla “compassione” e sentire il povero come “carne di Cristo”. Come tecnica dell’aiuto: saper ascoltare, non convertire, ma amare.

6° Obiettivo: la Liturgia. Gli scopi: aiutare i fratelli a comprendere il Mistero eucaristico; rendere la casa di Dio decorosa e accogliente; “sognare” una chiesa più grande come monumento della nostra fede.

 

Quali problemi concreti presentava l’edificio e quali le soluzioni?

Nonostante le premure dell’Arciprete don Daniele Cavaliere, di don Guglielmo Alfeo e del gruppo di uomini volenterosi e generosi che offrivano la loro opera gratuitamente, l’edificio si presentava piccolo, indecoroso, pericoloso, insomma inadeguato. Pioveva da più parti e dal soffitto cadevano mattoni e calcinacci. Nei giorni di pioggia si partecipava alla Messa con l’ombrello per ripararsi e poi si raccoglieva l’acqua caduta. Oggi pare un’assurdità, ma è accaduto proprio questo. Si fece strada il progetto di rendere il luogo di culto più accessibile e degno di un popolo che cresceva nella fede: erano molto più numerosi infatti i fedeli che partecipavano alla Messa e spesso molti vi assistevano dall’esterno, non trovando più posto all’interno. Da qui partì l’idea di una chiesa nuova e più grande. Il progetto risultò di non facile realizzazione. Il primo prezzo da pagare furono grandi sofferenze ed enormi sacrifici. Chiesi aiuto alla Regione Puglia, che mi venne accordato. Ma non bastava. Allora ebbe inizio la “raccolta” tra i fedeli. Poche persone mi contrastarono, molti capirono che la chiesa non era del parroco, ma era la casa di tutti, perché è nella Chiesa che il buon Dio ci raduna, ci parla, ci incontra, ci fa capire quanto ci ami. Piccole offerte fatte con amore, con piccoli sacrifici, e il miracolo avviene. Mi commuove ricordare tante persone che ogni mese sottraevano qualcosa, una piccola cosa ma grandissima agli occhi di Dio, alla loro pensione per vedere bella la loro chiesa. In ogni mattone c’è il sangue di tanti sacrifici della povera gente dal cuore grande. Parlavo alle persone del poco di tutti che diventa il molto di tutti: era quello il miracolo. Ed è questa l’eredità che lasciamo ai nostri figli.

 

La più grande difficoltà, la più grande delusione.

La diffidenza diffusa, non le minacce, mi preoccupava. La mia risposta era: pazienza, sorriso e preghiera. Capii che la gente, in prevalenza contadina, viveva in una grande contraddizione: da una parte, era manovrata dalla cultura marxista; dall’altra, cominciava a sentire il bisogno di Dio, del riscatto, della libertà. Accadde un fatto meraviglioso, venne intrapreso dalla maggior parte delle persone un cammino lento ma inevitabile: la piccola chiesa diventò segno, nostalgia, bisogno. Capii che lo Spirito di Dio operava in loro. Del resto, lo meritavano, era un premio ai loro sacrifici, alla loro vita di fatiche. Delusione? Nessuna! Chi ama in nome di Dio non resta confuso, ma lotta, prega e sa aspettare. Non era e non è mio compito convertire, solo il fuoco dello Spirito Santo converte, rinnova, crea spazio, apre nuove strade. Il mio compito era ed è amare, annunziare e lasciare ai fratelli la libertà di credere. Era ed è rimasto il mio stile di vita.

La più grande soddisfazione. La gioia più grande.

Non ho cercato il plauso umano, né dalla Comunità né da altri. Sono stato in mezzo alla Comunità come una madre che nutre e protegge le sue creature. Ho predicato e vissuto il Vangelo di Dio, ho dato la mia stessa vita, perché considero come la mia famiglia il popolo che Dio ama.

Grande soddisfazione: non per quello che abbiamo realizzato, ma per quello che Dio ha operato nella Comunità. Ho seminato nel suo nome e con pazienza ho atteso la sua maturazione. Il raccolto è stato merito suo.

Grande soddisfazione: per una Chiesa attiva, che cresceva giorno dopo giorno, ricca di vita, di fraternità, di fede.

Una chiesa ricca di tanti volti di giovani, oggi bravi professionisti, della vivacità di tanti bambini, di uomini ottimi collaboratori e di catechisti appassionati.

Una chiesa che ha partorito cinque sacerdoti diocesani e un giovane camilliano: don Pietro De Punzio, don Francesco Caramia, don Cosimo Soliberto, don Antonio Mitrugno, don Gino Epicoco, Walter Vinci, prossimo sacerdote camilliano.

Una chiesa divenuta popolo che ha accolto il Vangelo con la gioia dello Spirito Santo, anche nelle tribolazioni e fatiche. Un popolo che ha preso coscienza dell’amore di Dio manifestato fino alla follia della Croce, che ha scoperto che la morte di Gesù non era solo profetica, ma era morte per amore.

Grande soddisfazione nel ricordare i fratelli defunti della Comunità immersi, per il perdono e la misericordia di Dio, nell’abbraccio del Padre.

La gioia più grande: la Chiesa di San Giuseppe, oltre ad essere la casa della Comunità, è anche la Chiesa delle Forze dell’Ordine e delle associazioni nazionali: Carabinieri, Polizia di Stato, Polizia municipale.

Dal 1968 sono il loro Padre spirituale. Si celebrano in questa Chiesa le feste liturgiche dei loro Protettori: la Virgo Fidelis, San Michele Arcangelo, San Sebastiano. Oltre alle Celebrazioni solenni, mi sono dedicato all’ascolto delle confessioni, ad incontri personali, e ho assolto al ruolo di mediatore con l’Amministrazione comunale.

San Giuseppe è stata anche la Chiesa dell’Emigrazione.

Nel 1967 fu ancora Mons. Franco che mi affidò l’incarico di delegato arcivescovile delle migrazioni, incarico che ho ricoperto per 40 anni, durante i quali ho percorso i sentieri degli emigrati, ho vissuto di persona i loro problemi: ciò mi ha reso più prete e più vicino all’uomo.

Ho visitato i Paesi con massiccia presenza di Italiani e soprattutto di Mesagnesi, per confortare e testimoniare la presenza della Chiesa nelle loro vite che, anche da lontano, rimanevano radicate nella loro terra natale. Europa, Asia, Australia: ovunque mi trovassi, ho visitato le case degli emigrati, i luoghi del loro lavoro, ho incontrato e ascoltato famiglie, giovani, ragazzi.

Il programma era costituito essenzialmente dalla volontà dell’incontro:

• con i missionari italiani per lo scambio di idee e di opinioni, con incontri di preghiera e feste insieme;

• con le autorità locali civili, per parlare dei problemi degli emigrati e del loro inserimento nella comunità.

Durante le ferie estive, quando gli emigrati tornavano a Mesagne, la Chiesa di San Giuseppe ospitava l’incontro delle famiglie con momenti di preghiera e momenti di festa.

Da 10 anni nella Chiesa di San Giuseppe è operativo l’Ufficio “Badanti”, che si occupa dell’accoglienza degli stranieri, soprattutto di sesso femminile, e del loro avvio al lavoro dopo una formazione nella lingua italiana. Per una maggiore integrazione nel tessuto sociale mesagnese, sono state realizzate celebrazioni liturgiche in rito ortodosso e la Comunità ha partecipato attivamente alla celebrazione delle feste religiose più importanti degli stranieri.

La Chiesa di San Giuseppe rimane una porta sempre aperta a tutti, disponibile ad ascoltare, aiutare, consolare, difendere le categorie più deboli e indifese, in ogni momento dell’anno.

Un’attenzione particolare è riservata al “Natale dei Poveri”, che prevede l’ascolto dei bisogni individuali, l’offerta di “Buoni alimentari” e di quanto vi sia necessità. Tutto ciò è sentito dalla Comunità non tanto come dovere, ma come bisogno, perché i poveri sono la carne di Cristo: e questa è la gioia più grande per me, pastore di anime.

In 35 anni due chiese e un coraggio enorme. Era necessaria questa avventura?

Mi piace iniziare la risposta con un racconto armonioso della storia di un giovane prete che intreccia la sua vita con quella di un popolo, e insieme scrivono una storia per la gloria di Dio e per amore a Mesagne.

La zona di Mesagne, che ora chiamiamo Centrale, era campagna, anzi palude dove, mi raccontava Filippo Indolfi, i bambini giocavano a catturare le rane e a sera si ascoltava il canto sgradevole di queste bestiole. In questa zona, nel 1915, subito dopo la prima guerra mondiale, fu costruito un capannone che avrebbe ospitato la centrale termoelettrica. Mesagne ebbe finalmente la luce elettrica.

Il rione cominciò subito a popolarsi: tante case, tanto movimento. Inaspettatamente la zona si espandeva oltre la Centrale, verso la Distilleria, il Pozzo artesiano, l’Arco Ferraro. Si pensò ad una chiesa provvisoria perché la zona si trovò lontana dalle chiese del centro storico.

Il 18 marzo 1961 nacque la chiesa proprio nel capannone della Centrale, locale fatiscente e in stato di abbandono. Nel 1962 la chiesa fu costituita giuridicamente e divenne una parrocchia dedicata a San Giuseppe. Cominciò a funzionare la domenica con la presenza di don Guglielmo Alfeo. Il 10 ottobre 1965, fui nominato 1° parroco.

Come ho già avuto modo di dire, il locale della nuova parrocchia era indecoroso e pericoloso; si pensò quindi ad una nuova chiesa. Dopo un decennio di sacrifici, all’inizio degli anni ’80, con il contributo della Regione Puglia attraverso il Genio Civile, venne ristrutturata la prima parte della chiesa. Poi, col progetto dell’Ing. Luigi Giorgino, si unirono le varie parti e nacque l’attuale chiesa grazie al contributo dei fedeli, sempre generosi.

In questo ultimo periodo la chiesa venne chiusa; per le funzioni e le attività spirituali si utilizzarono appartamenti non abitati, grazie alla generosità delle famiglie di Bartolomeo (Peo) Delle Grottaglie e della sig.ra Chirone-Bardicchia.

Intanto la zona abitata continuò ad espandersi verso il rione Seta con case a più piani. Quasi 2.000 anime. Bisognava ormai ripensare ad una chiesa più centrale rispetto alla zona abitativa; ormai la chiesa di San Giuseppe si trovava nella periferia della parrocchia. Si pensò alla vecchia Distilleria o alla zona Catarozzolo in via Lombardia, ma il costo era altissimo per noi. Era un sogno irrealizzabile?

Intanto attrezzammo un garage nel rione Seta per la celebrazione della S. Messa domenicale, poi, divenuti ormai numerosi, ci trasferimmo nella Scuola Media “Marconi”. Non ho mai perso la speranza di costruire una nuova chiesa: la comunità di San Giuseppe divenne la più numerosa di Mesagne. L’occasione si ebbe quando l’amministrazione comunale progettò la lottizzazione della zona Seta, prevedendo una scuola per l’infanzia, una piazza e un lotto di mq 3.600 destinato al culto che fu assegnato alla nostra parrocchia. Con l’aiuto della Regione e con i sacrifici del popolo si cominciò a costruire un salone per la S. Messa, stanze per il catechismo, la canonica e un campo sportivo. La ditta Profilo-Distante eseguì i lavori su progetto dell’architetto Decio De Mauro. Successivamente mi fu regalata una bellissima statua di S. Pio dalla famiglia Saracino-Argese: fu la sentinella e la benedizione del rione più esteso.

Pensai a don Daniele che, avendo previsto l’espansione della zona, aveva scritto: “Affido a don Angelo questa porzione del popolo nostro…, dovrà pur trovare, nel quartiere tanto esteso, un punto di più facile accesso a tutti”.

Fu un profeta! Si cominciò a parlare di Chiesa grande, capace di ospitare tante persone, e che divenisse centro di spiritualità, attiva e feconda, per il bisogno e il bene di tutti.

Nacque il progetto redatto dall’ing. Luigi Giorgino, insieme all’ing. Giancarlo Vella e all’arch. Franco Cutrì. Furono fatti i saggi geologici e si decise di costruire la nuova chiesa su grossi pilastri (come una palafitta). Tema del progetto: due mani rivolte al cielo.

Inoltrammo il progetto all’Arcivescovo Mons. Settimio Todisco e, grazie anche alle preziose e fondamentali indicazioni di Mons. Angelo Catarozzolo, allora Vicario Diocesano, la CEI lo approvò in breve tempo e lo finanziò per il 75%. La gran parte dei lavori fu realizzata dalla ditta edile Cosimo Faggiano di Mesagne. Ci domandammo se la comunità ci avrebbe aiutati in questa impresa immane. Fummo incoraggiati da quanto aveva scritto don Daniele: “… Vorranno tutti dare il proprio aiuto, pronto, adeguato alle tante necessità, non lievi ed urgenti, che si presenteranno a don Angelo…”. Così nacque la grande chiesa, bella e superba, con il suo altare centrale, opera del M° Carmelo Conte, e l’altare del SS. Sacramento, opera della ditta Todisco.

La chiesa di San Giuseppe non è più parrocchia. Quale sarà il suo futuro?

Ponemmo grande attenzione al trasferimento della sede parrocchiale nella nuova chiesa e volemmo dedicarla a San Giuseppe. Ma giuridicamente non era possibile; così la nuova chiesa venne dedicata a San Pio, e la chiesa di San Giuseppe divenne Rettoria. Ma essa rimane la chiesa dove è nata la Comunità dei cinque rioni, una chiesa custode di tante storie, tanti sacrifici, tante speranze, tanti volti, tanti cuori; un monumento della fede e del coraggio di un popolo che dalla palude portò nella zona pienezza di vita, esplosione graduale di fede. Per le celebrazioni e le attività dovetti dividermi fra la chiesa parrocchiale di San Pio e la rettoria di San Giuseppe: fu una fusione felice di due grandi amori. Avviata la vita della Comunità in San Pio, mi sentivo felice ma assai stanco, cominciava a venir meno l’energia fisica che pure avevo profuso per tanti anni. Non avrei mai voluto che per la stanchezza subentrasse nel mio operato superficialità o trascuratezza. Pensai che sarebbe stato meglio che nella nuova comunità si impegnasse un giovane prete, ricco di forza che io non avevo più. Non volli fuggire certamente, il mio cuore rimane lì per sempre; fu solo per amore dei miei parrocchiani che decisi di sottrarmi a quello che fino a quel momento aveva costituito tutta la mia vita. Scrissi al Vescovo una lettera, e mentre scrivevo la mia mano tremava, chiedendogli di essere dispensato dall’ufficio di parroco. Il Vescovo capì, ed io tornai come rettore nella chiesa di San Giuseppe, quella che passerà alla storia come la chiesa dei cinque rioni, monumento della fede e del coraggio di un popolo.

 

Lo scorso anno un evento legato alla “luce” a San Giuseppe. Quali sono stati i rapporti con il vicino “Enel”?

È proprio così. Nel 2015 abbiamo avuto l’anniversario del 50° anno della parrocchia di San Giuseppe e quello del 100° anno dell’elettrificazione di Mesagne. Ad ottobre abbiamo presentato il libro-ricordo dell’ing. Antonio Summa “Prima che quella luce si spenga” alla presenza di autorità civili, militari e religiose oltre ai capi agenzia Enel che si erano alternati negli anni. Molto popolo, grande interesse. Pensando all’evento posso dire: c‘ero anch’io. Volgendo lo sguardo al passato leggiamo di una Mesagne agricola circondata da cinque porte che al calar della sera viveva in una suggestiva, riposante e silenziosa semioscurità. Nelle case le candele, il lume a petrolio o la lucerna. Le vie del paese, invece, erano illuminate da lampioni a petrolio che venivano fissati al muro o su colonnine. Questi lampioni fornivano scarsa illuminazione e il loro funzionamento era affidato ai lampionari che ogni sera, all’“Ave Maria”, provvedevano alla loro accensione, alla loro pulizia e al rifornimento di petrolio. Poi, all’ora del “mattutino”, li spegnevano. Poi, nel 1915, un evento straordinario cambiò le abitudini cittadine: l’elettrificazione pubblica. Nello stesso androne dove nacque la “luce”, nacque poi la chiesa di San Giuseppe. Due storie che si incrociano: l’ente elettrico e la chiesa, come due vicine di casa.

L’Ente elettrico (poi Enel) porta la luce per vincere l’oscurità, la Chiesa porta la luce per l’uomo che cerca la sua origine e il suo destino. Enel ascolta le preghiere e i canti della sacra Liturgia, la Chiesa ascolta i rumori degli arnesi di lavoro, che somigliano a quelli prodotti da strumenti musicali moderni. Il segreto del rapporto? Rispetto dei ruoli e vera amicizia, un caffè insieme, un saluto, un sorriso e l’augurio di buon lavoro.

 

A oltre 80 anni quale visione per il futuro di questa Comunità?

Sono nato per questa Comunità, e questa Comunità mi ha trasformato giorno dopo giorno fino a farmi diventare sacerdote di Dio, Padre, Madre, Fratello, Figlio. Sono qui da oltre 50 anni, non l’ho mai tradita o abbandonata.

Mio desiderio è di essere seppellito in questa Chiesa: sarebbe per me un ultimo atto di fedeltà, un dovere di stare sempre accanto alla sposa che è questa mia Comunità, che ho amato più di me stesso. Quasi ogni giorno, alle 15.30, sono solo nella Chiesa, penso e prego. Penso ai 50 anni vissuti insieme, nel rispetto dei ruoli. Ricordo la mia passione per questo popolo di Dio. Conservo fortemente nel mio cuore i momenti di festa, le tribolazioni, i lutti, le lacrime, le fatiche. Rivedo i miei collaboratori, i loro entusiasmi, gli impegni assolti con generosità, le fatiche affrontate con coraggio e con lo sguardo rivolto in alto. Vedo tutta la storia di 50 anni… come un sogno vissuto in un mondo senza tempo. Poi guardo al futuro. È nelle mani di Dio! Il mio compito è ora quello di pregare e far pregare per il Regno di Dio, perché questa Comunità cresca sempre più nella fede e nella consapevolezza di essere non un’isola, ma un faro di luce per i fratelli. Inoltre sto cercando di creare l’associazione dei “custodi”. Il regolamento è pronto.

L’impegno dei “Custodi”:

• aver cura della Chiesa e non farla finire miseramente;

• sostenere la fede e il coraggio di un popolo;

• continuare a diffondere la devozione a San Giuseppe, che è stata per noi come un fuoco sempre acceso nel cuore;

• fare il possibile perché la Chiesa diventi un angolo silenzioso di preghiera e memoria di una storia importante di   Mesagne, quella del popolo dei cinque Rioni.

  

Ringraziamo don Angelo per avere consegnato a noi e a chi verrà i suoi ricordi e

i suoi convincimenti. Nel frattempo, con la semplicità che lo caratterizza da sempre,

egli affida «alle mani di Dio» il «popolo dei cinque rioni».

 

(Intervista pubblicata sul libro “San Giuseppe Artigiano in Mesagne – La chiesa dei cinque rioni” Ed. Centro Culturale Prima Pagina- 2016)